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La leggenda dei ragazzi di Busby

Cultura e società



La leggenda dei ragazzi di Busby

di Gigi Stabile



ventodiscirocco.net

scritto per Il Quotidiano della Basilicata il 15 maggio 2008



Alla moltitudine degli appassionati di calcio il suo nome non dirà più di tanto, ma non sono in pochi ancora oggi a giurare, e non solamente in Inghilterra, che si sia trattato del più grande talento calcistico di tutti i tempi.
Duncan Edwards aveva infatti tutte le carte in regola in termini di eleganza, carisma, personalità, una tecnica raffinata ed una impressionante forza fisica, un'elevazione ed un colpo di testa eccezionali, una potenza di tiro con entrambi i piedi, per imporsi fin da giovanissimo là in mezzo al campo dove, da sempre, si decidono le sorti e i destini di ogni partita.
Voluto dal leggendario manager Matt Busby, aveva firmato a sedici anni per i Red devils di Manchester e solo due anni dopo aveva debuttato nella nazionale dei bianchi d'Inghilterra.
Busby nell'immediato dopoguerra, in un'epoca di ricostruzione non soltanto calcistica, era stato chiamato alla guida del Manchester United per risollevarne le sorti.
Essendo inagibile per i danni causati dai bombardamenti l'Old Trafford, lo stadio di casa, i red devils avevano dovuto dividere Maine Road con i rivali cittadini del City.
Si era affidato ad un gruppo di giovanissimi pescati nel settore giovanile del club o in squadre minori; e ad essi aveva evitato un futuro già assegnato in fabbrica o nelle miniere.
E Duncan e gli altri talentuosi ragazzi, i Busby babes come venivano soprannominati, avevano risposto alla loro maniera, conquistando i due titoli nazionali del 1955/56 e del 1956/57 e cominciando a farsi conoscere anche in Europa grazie all'allora nascente Coppa dei Campioni.
Avevano già dimostrato e vinto molto il ragazzo di Dudley ed i suoi compagni ed erano pronti per nuovi e numerosi successi se non già le circostanze ed il caso, riservati di solito a noi comuni ed anonimi mortali, ma più propriamente il Fato che maggiormente si addice alle grandi personalità ed ai miti, non avesse deciso in maniera diversa.

Matt Busby's boys were flying, returning from Belgrade, /This great United family, all masters of their trade…..
raccontano i versi di una struggente canzone: era ancora aperta, quel 6 febbraio del 1958, la ferita di Superga, la tragedia aerea che aveva cancellato in un sol colpo il grande Torino di Loik, di Gambetto, di capitan Valentino Mazzola. Il Manchester United rientrava da Belgrado dove, con un soddisfacente 3-3 con la Stella Rossa (la partita di andata era finita 2-1 per gli inglesi) aveva conquistato il diritto a giocare la semifinale di Coppa dei campioni.

Per il bimotore messo a disposizione per riportare a casa la squadra inglese ed i giornalisti al seguito si era reso necessario uno scalo tecnico a Monaco di Baviera.

La neve che cadeva e quella raccolta in cumuli ai bordi della pista non aveva raffreddato più di tanto l'euforia della comitiva (23 persone) che continuava festeggiare l'avvenuta qualificazione e forse qualche preoccupazione era sopravvenuta solo dopo i due tentativi di decollo andati a vuoto.

Il pilota dell'aereo, un certo James Thain che aveva accumulato ore di volo nella Raf durante la seconda guerra mondiale, non si dette per vinto e partì per la terza, ultima e fatale volta.

L'aereo sembrò, sulle prime, essere in grado di alzarsi, ma dopo qualche centinaio di metri andò ad impattare contro un deposito di carburante.

Il velivolo tra le urla di sorpresa prima e di terrore dopo, prese immediatamente fuoco ed esplose.

Qualche ora dopo, mentre il vento gelido della capitale bavarese continuava a tormentare un ammasso di rottami coperti di neve, si poteva stilare un primo bilancio della tragedia: avevano perso la vita i terzini Roger Byrne, 28 anni, capitano e veterano della squadra, e Geoff Bent, 25 anni; il centromediano Mark Jones, 24 anni; gli attaccanti Tommy Taylor, 26 anni, Liam Whelan e David Pegg, entrambi ventiduenni e il centrocampista Eddie Colman, 21 anni.
A questi si aggiungevano, tra le persone al seguito, 3 membri dello staff tecnico, 8 giornalisti, 1 agente di viaggio, 1 supporter ed 1 steward.

Qualche giorno dopo, per le ferite riportate, sarebbero morti anche il secondo pilota ed il ventunenne Duncan Edwards.

Solo cinque giorni prima della tragedia il Manchester aveva giocato ad Highbury, contro l'Arsenal, una memorabile partita vinta con il punteggio di 5-4. Narrano le cronache del tempo, ed ancor di più quelle impreziosite dal passare degli anni, che mezz'ora dopo il fischio finale, i tifosi di entrambe le parti facevano fatica ad abbandonare gli spalti. Forse presagivano che non avrebbero mai più rivisto quella incredibile squadra.

Uno dei sopravvissuti a quella sciagura, Bobby Charlton, uno dei più grandi calciatori di ogni tempo e paese, ha avuto più volte modo di affermare che l'unico calciatore che lo abbia fatto sentire inferiore sia stato proprio Duncan Edwards.

Lo stesso Charlton, insieme a Matt Busby, ripresosi dopo qualche anno dalle gravi ferite, avrebbe portato il Manchester United alla conquista della Coppa dei campioni proprio nel decennale della sciagura di Monaco.

"Eight men will never play again, who met destruction there, /the flowers of English football, the flowers of Manchester" conclude mestamente la vecchia canzone; ma è probabile che quegli otto uomini abbiano idealmente corso insieme a Bobby Charlton, a George Best, a Nobby Stiles sul prato di Wembley, quel 29 maggio del 1968 contro il Benfica (4-1 il risultato finale).
I nuovi eroi del Manchester dei nostri giorni, i ragazzi di Ferguson, freschi vincitori del 17° titolo, una squadra non ancora leggendaria (ma i lavori procedono speditamente), hanno l'occasione mercoledì a Mosca, nella finale di Champions League con il Chelsea, di celebrare nel migliore dei modi il cinquantennale del tragico evento di Monaco. Per i loro sfortunati compagni e per se stessi.
Drogba, Terry e compagni permettendo, naturalmente.


Gigi Stabile




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